Parlare di “legge” sul fine vita mi inquieta un po’, nel senso che la vita, come tale, è un mistero talmente profondo che neanche la scienza o una norma la può riassumere o definire in una formula o equazione matematica. Tuttavia il ddl presentato alla Camera riguardante le “Disposizioni in materia di alleanza terapeutica, di consenso informato e dichiarazioni anticipate di trattamento” cerca di definire alcuni principi basilari.
Tutelare la vita nei momenti più fragili e più sensibili è una riscoperta che l’uomo è chiamato a rivivere in un mondo in cui, oggi, sembra che solo ciò che è utile e perfetto debba essere preservato. La capacità di ognuno di sostenere l’altro che è prossimo con i suoi bisogni le sue debolezze, è un dovere di ogni cittadino, di chi, operando nella comunità, vive la libertà non come autodeterminazione, ma come come prendersi cura dei momenti più deboli della vita umana. Perché la dignità dell’uomo non si tutela solo quando si è perfetti o quando si è liberi di fare ciò che si vuole, ma quando si opera nel prenderci cura l’uno dell’altro.
Un’altra questione è che la legge non è fatta da cattolici, come diversi editorialisti hanno definito, è dunque indirettamente dalla Chiesa per imporre un dogma o un diktat al mondo (un refrain già sentito), ma la legge mira a tutelare la vita nei momenti più fragili, in particolare quelli in cui l’uomo non può pienamente esprimersi. Se la questione che inquieta i laici non credenti (perché io mi definisco laico credente) è quello che, una volta scritte le DAT – dichiarazioni anticipate del trattamento -, possa non essere rispettata la volontà del paziente, reputo che spetti al medico, nella sua professionalità, stabilire se e quando l’uomo vada alimentato e idratato fino non raggiungere il limite di cure sproporzionate e inutili.
Certo si assisterà ad una battaglia che diverrà sicuramente ideologica da parte della frange laiciste e radicali contro coloro che hanno redatto le legge, additati come servi del Vaticano e altre storie, ma a questo gioco non ci sto.
Mi auguro che la forza della ragione e della realtà, di chi ogni giorno si prende cura nel silenzio dei più fragili, prevalga a tutela della dignità umana.
A seguire l’articolo di Davide Rondoni, da Avvenire del 5 marzo 2011.
Quel «desiderio» di morte
Tornare alla legge
Ci tocca vivere in una epoca strana. Esaltante e inquietante. Di rovesciamenti. Di nebbie. Di ricapitolazioni. Un’epoca in cui le parole elementari dell’esistenza umana sono diventate terreno di diatriba. Un’epoca in cui con le leggi non si deve solo arginare le malefatte, le delinquenze: ma con la legge si devono mettere i sacchi sabbia, rinforzare gli argini, mettere paglia e terrapieni perché non dilaghi una strano desiderio di morte. Ormai si tratta di dover riscoprire, anche attraverso il dibattito giuridico, e poi parlamentare e quindi politico, il significato di parole elementari. Ci è dato di vivere questo tempo. Può essere vissuto come una grande occasione per rimettere a fuoco le parole principali della esperienza umana.
Sono in “crisi” (cioè in verifica, in messa alla prova) non solo le parole che indicano le più alte questioni – come Dio o destino – ma anche quelle elementari, che sono la pelle, la materia, il sangue normale della esistenza umana: la parola figlio, la parola nascita. E la parola morte. Parole intorno a cui nei millenni l’arte e il pensiero si sono incendiati di bellezza e di forza. E che sono state visitate e lette secondo infinite prospettive. Ma mai rovesciate nel loro significato essenziale. Per un ebreo, un greco o un romano, la morte – gloriosa o infame, eroica o banale – era sempre un vincere dell’ombra sulla luce, un venir meno. Una cosa indesiderabile in sé. E la cura, il prendersi carico del penare e del soffrire fino agli estremi passi è sempre stato un nobile ufficio. La morte – lungi dall’essere un atto vergognoso, nascosto, da vivere in una solitudine definitiva – era vissuta come momento dell’appartenenza a una comunità, a una civis, a una rete di relazioni piene e significative. E molto spesso è ancora vissuta così.
Ma altrettanto spesso invece ci troviamo a discutere di una morte che viene scambiata per quel che non è, invocata come liberazione in nome della legge. Ci ragiono su, come tanti. E mi rendo conto di non essere stato capito da più di qualcuno e persino da qualche titolista. Ma ciò che penso, e dico, è che oggi “dobbiamo fare” una legge: la più equa, semplice e avveduta possibile. Dobbiamo tornare ad averla perché sul fine vita si sono mosse le azioni – forzando la legge – di chi ha voluto render la morte procurata una liberazione dell’individuo, una specie di prevalere della luce su un’ombra (la vita quando anche sofferente
Si è mosso un plotone di opinionisti. Un manipolo di magistrati. Una carovana di nuovi santoni. Per far passare la morte per quel che non è. E la persona per quel che non è: una monade, un essere irrelato, uno che non è nelle mani di nessuno, neanche nelle mani di chi lo ama, di chi lo cura, di chi ne può sostenere fatiche e attraversamenti dolorosi.
Si dice all’uomo che ha preteso di gestire l’economia, di gestire il pianeta, di gestire il corpo, il nascere: ora gestisci anche la morte. E per andare contro ogni evidenza si è sollevato un polverone. Come se in Italia ci fosse qualcuno – noi, i cattolici – che vuole obbligare qualcun altro a vivere in condizioni infernali, non si capisce poi perché. Come se ci fosse qualcuno che vuole togliere un diritto. Mentre è esattamente il contrario: si vuole proteggere chi non è in condizione di esercitare un diritto nel momento della sua massima debolezza. Nella legge in discussione, improntata al buon senso, si intende salvaguardare un diritto alla vita e alla cura per l’uomo nel momento in cui è nella reale situazione di bisogno e di affidamento. Non quando la ha immaginata.
Ma nel momento in cui può diventare – come successo con il placet di certa magistratura – preda della ideologia o della incapacità o della debolezza di un altro. Per avversare l’evidenza che la morte è un ombra contro cui lottare, si è cominciato a blaterare di diritti negati. Come se dar da bere a un malato, idratarlo, sia conculcare un diritto, invece che un dovere non solo della medicina ma dell’esser uomini. Una forzatura della legge che in passato ha consentito una eutanasia e che ha innalzato come esempio un gesto che, grazie a Dio, sinora nessuno in Italia ha più seguito. A questa e ad altre possibili forzature può ora rispondere una buona legge. Una legge che non intende obbligare nessuno a una certa visione della vita, poiché non sono le leggi a toccare i cuori degli uomini. Ma intende far pensare a tutti che l’uomo debole va onorato e accudito. A qualunque costo. Se no il prezzo della vita lo finirà per fissare chi ha il potere.
Davide Rondoni
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