In questi giorni tra passaggi in Commissione e Camera si è discusso sull’emendamento contro l’omofobia. Carte alla mano di fatto non si discuteva di omofobia in senso stretto, ma di discriminazione in genere, una parola – discriminazione – che dice tutto e niente – anzi che di fatto il nostro codice espica già bene, grazie anche all’azione intepretativa dei giudici cha hanno saputo applicare la legge, punendo in tutti quei casi in cui era evidente la discriminazione (omofobia, lavoro – pensate alla materia del mobbing, non presente nel nostro ordinamento, ecc).
La crescente escalation di casi contro omossessuali registarti in italia e riportati dai media sembra avere spinto ad una leggina ad hoc a tutela degli stessi, volendo implicamente suppore che, ogni volta che gli stessi non sono tutelati dalla legge, sono discriminati e dunque bisagno intevenire per salvaguardare i loro diritti. A ciò si aggiunge il carico emotivo che volontariamente si è voluti montare nei confronti dei cittadini italiani nel dare sostegno a tala legge, non sapendo gli stessi, cioè noi, che ci sono già gli strumenti giuridici pe tutelare i casi contro l’omofobia. Non mi stupisce se in questi giorni usciranno sondaggi in cui si dice che la maggioranza degli italiani sostengano la legge contro l’omofobia, considerato il fatto che non sono stati informati chè già la legge interviene in merito, grazie all’intepretazione della legge esistente e che sicuramente la domanda posta dai sondaggisti sarà mal posta , richiedendo un netto sì o no in merito.
Prima di lasciarvi alla lettura dell’articolo pubblicato su Avvenire di oggi, alcune riflessioni.
Quali esigenze hanno gli italiani?
Come vogliamo che il Parlamento sfrutti il suo tempo a disposizione?
Che lo usi per leggi che creino “nuovi diritti” di matrice culturale o che il tempo impiegato dai parlamentari sia usato per tutelare quei diritti naturali spesso disattesi e non realizzati (sostegno alla famiglia, figli, istruzione, lavoro, ecc)?
Vigilate gente, vigilate!
Proviamo a ricostruire i fatti nella loro nuda verità, e nella consapevolezza che non è assolutamente in discussione la dignità degli omosessuali come persone, e in quanto tali portatrici degli stessi diritti garantiti dalla Costituzione italiana a tutti i cittadini del nostro Paese.
Ieri è semplicemente accaduto che alla Camera, con un voto bipartisan, è stata ritenuta fondata la pregiudiziale di costituzionalità sollevata dall’Udc in relazione alla proposta di legge che porta il nome dell’onorevole Paola Concia e che è più nota come legge anti-omofobia.
È indiscutibile che la materia sia in queste ore incandescente, a causa di ripetute aggressioni contro coppie di omosessuali, verificatesi soprattutto a Roma. Aggressioni violente e del tutto immotivate che hanno suscitato unanime condanna nel mondo politico, oltre che la riprovazione, senza se e senza ma, dell’opinione pubblica. E se non fosse abbastanza chiaro, anche noi – ancora una volta – esprimiamo una ferma condanna per questa come per ogni altra forma di violenza, tanto più se gratuita, irrazionale o mossa da motivazioni abiette.
Ma torniamo al cuore della questione: la legge Concia è stata “stoppata” perché il Parlamento ha ritenuto che contenesse in sé un rischio gravissimo, cioè quello di provocare una discriminazione nei confronti di chi omosessuale non è, proprio in virtù dell’introduzione nel codice penale di un’aggravante specifica, tesa a creare una sorta di super-protezione riconosciuta solo e soltanto alle persone che si dichiarano omosessuali. Il legislatore, insomma, in questa occasione ha saputo guardare lontano. E ha fatto anche di più: ha saputo riconoscere quello che appare come il rischio più elevato per una comunità civile: l’introduzione di un nuovo reato di opinione. Un reato nel quale sarebbe potuto cadere, ad esempio, chi avesse pubblicamente sostenuto la bellezza e la bontà sociale del matrimonio storicamente definito, ovvero fra un uomo e una donna. Con simili norme per i portatori di questa opinione si sarebbe aperta la porta all’imputazione per «discriminazione» nei confronti di quanti, appunto gli omosessuali, non possono accedere al matrimonio fra persone dello stesso sesso.
Qualcuno dirà che il legislatore ha visto male. A noi sembra che questa volta il Parlamento si sia accorto della vera posta in gioco: non introdurre una sanzione di legge che già c’è, ma aprire la via, al di là della stessa lettera della legge, alla cosiddetta «cultura di genere» nel nostro ordinamento. Una «cultura» che porta con sé una serie di richieste, a nostro parere, irricevibili: dal matrimonio omosessuale alla procreazione artificiale e all’adozione di bambini da parte di persone delle stesso sesso.
Forse non placherà la polemica neppure l’evidenza del fatto che già oggi il nostro ordinamento indica nei cosiddetti «motivi abietti» un’aggravante e che, infatti, la magistratura ha già rigorosamente sanzionato le aggressioni a persone bersagliate per il loro essere omosessuali.
Eppure, vogliamo sperare in un soprassalto di saggezza anche in chi, ieri, si è spinto scompostamente a parlare di «vergogna». È opportuno che tutti si facciano carico della prudenza necessaria quando, nella creazione di “nuovi diritti”, si vanno a intaccare i pilastri della comune antropologia. E una dose di lucidità in più aiuterebbe tutti noi a collocare il tema della violenza, compresa quella contro gli omosessuali, là dov’è il suo posto elettivo: al centro dell’azione educativa. Non sarà un’aggravante specifica, portatrice di ambigue e pericolose interpretazioni e applicazioni, a strappare la violenza dal cuore dei violenti. E questo resta il problema.
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